Rassegna Stampa Storica

ITALIA

La borgata ribelle di Roma dimenticata dalla storia

Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale18 aprile 2019 10.25FacebookTwitterEmailWhatsappPrint

                                                 Quadraro, Roma, 2018. Il murale Nido di vespe dello street artist Lucamaleonte. (Sara Cervelli)

Come ogni mattina aveva aperto gli scuri della finestra di casa sua: aveva sette anni e quattro mesi. Sette anni e quattro mesi, ripete ricordando quel giorno di 75 anni fa quando le truppe dell’esercito tedesco, la Wehrmacht, circondarono la palazzina di via degli Arvali, al Quadraro, il quartiere di Roma dove Vanda Prosperi viveva con i suoi cinque fratelli e i suoi genitori. “Ho visto una sfilza di soldati tedeschi schierati con i fucili spianati”, racconta. “Ho gridato ‘Mamma, vieni’”. Ma un manipolo era già alla porta. Il padre di Vanda – Vittorio – si stava preparando per andare a lavorare nella ditta di costruzioni che dirigeva. I soldati lo sorpresero proprio mentre usciva dal bagno, gli puntarono i fucili al petto intimandogli di seguirli.

Alla madre di Vanda consegnarono un foglietto in cui era scritto che aveva dieci minuti per preparare una gavetta con il cibo, qualche vestito di ricambio, tutto in un fagotto. Lo spinsero giù dalle scale insieme agli altri uomini del palazzo e lo caricarono su un carretto. La moglie gli corse dietro con Vanda attaccata alla gonna. “Quando vedi una scena così – ti strappano tuo padre dalle braccia, gli puntano dei fucili addosso e se lo portano via – non te ne dimentichi più”, racconta Prosperi che oggi ha 84 anni ed è una delle ultime testimoni oculari del rastrellamento del Quadraro, avvenuto il 17 aprile 1944, una delle pagine più nere dell’occupazione nazista di Roma. È stato il secondo rastrellamento per numero di arrestati dopo quello del ghetto ebraico, ed è avvenuto poco più di tre settimane dopo l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Era cominciato alle 5 di mattina, un lunedì. “Il giorno prima eravamo andati a un matrimonio a Tor Fiscale e avevamo pensato di fermarci a dormire lì, ma poi invece siamo tornati al Quadraro, perché papà doveva andare a lavorare il giorno appresso”. Tutti gli uomini e i ragazzi della borgata nella zona sudest della capitale – in tutto 947 persone, secondo alcune ricostruzioni – furono fatti salire su dei camion, portati prima al cinema Quadraro su via Tuscolana, dove li identificarono e li schedarono, poi furono tenuti prigionieri per alcuni giorni a Cinecittà. Infine trasferiti con i treni a Terni e al campo di transito di Fossoli, vicino a Modena. Da lì nel nord della Germania, dove furono “comprati” da imprenditori locali che li impiegarono nelle fabbriche chimiche e siderurgiche del terzo reich. “Gli schiavi di Hitler”, li hanno chiamati.

                                                             Quadraro, Roma, 2019. Vanda Prosperi mostra una foto di suo padre. (Sara Cervelli)

“Se con la mente potessi stampare una fotografia… Nella mia testa quella scena mi è rimasta impressa per tutta la vita”, racconta Prosperi, che ancora vive nel quartiere in cui è nata, in una casa bassa con un giardino che cura personalmente, qualche isolato più in là rispetto all’abitazione di quando era bambina.

“Sentivamo un rumore di passi: bum bum”, Ada Giacopetti ha 91 anni, i capelli ricci e imbiancati, batte le mani sulle gambe per riprodurre il rumore della marcia dei tedeschi che circondavano casa sua: “Bum, bum, bum”. Nella sua mente di bambina la violenza del rastrellamento, la paura per suo padre caricato sul camion con la forza, le urla delle donne si sono trasformate in un suono torvo. Allertato dai rumori, il padre di Ada l’aveva svegliata: “I tedeschi si staranno ritirando da Roma”, aveva detto.

Ma i nazisti erano già in casa, accompagnati da squadracce di fascisti: “Gli uomini ci devono seguire”, avevano intimato, facendo irruzione nella prima palazzina di via degli Arvali, subito dopo l’incrocio con via degli Angeli. “Quali uomini?”, aveva risposto il padre di Ada, che era vedovo e viveva da solo con la figlia di quattordici anni, dopo che la moglie era morta qualche anno prima. I tedeschi allora lo presero e lo spintonarono giù dalle scale. Ada lo seguì e lo vide salire sul camion, seguito dai soldati, racconta nel cortile della sua casa con le pareti rosse tra gli orti del Quadraro.

Mentre erano tutti usciti dalla palazzina e aspettavano che gli uomini salissero sul camion un sasso colpì i soldati, che spararono in direzione di una finestra con gli scuri accostati. “È da poco che abbiamo tirato fuori il bossolo che si era incastrato tra i mattoni”, racconta Giacopetti, che ha rivisto suo padre solo un anno dopo il rastrellamento. Era tornato a piedi dalla Germania, dopo la fine della guerra. “Mangiavano solo bucce di patate e cicoria che raccoglievano nei campi, hanno patito la fame”. Quando l’ha visto arrivare davanti al bar del quartiere, il bar Cafagna, si è messa a gridare e gli è corsa incontro. Aveva avuto paura di non vederlo mai più, non avevano ricevuto né lettere né notizie dalla Germania.

Il silenzio dei reduci Il console tedesco a Roma diceva che c’erano solo due posti in cui uno poteva nascondersi durante l’occupazione nazista della capitale: “Il Vaticano e il Quadraro”. Quartiere-borgata nato a ridosso dell’aeroporto di Centocelle e degli studios di Cinecittà, tra la Casilina e la Tuscolana, il Quadraro era una specie di paese a se stante, con le sue costruzioni basse circondate da orti e campagna, abitate da commercianti, operai, muratori, artigiani, immigrati arrivati dall’Italia meridionale. Quella mattina di aprile del 1944 solo qualcuno riuscì a scappare dal rastrellamento: alcuni si nascosero dentro a una fontana, altri su un terrazzo, qualcuno sotto a un materasso, altri ancora in un tunnel sotterraneo. Una donna a cui portarono via l’unico figlio poco più che adolescente impazzì dal dolore. “Giorgio, Giorgio”, andava gridando per le vie della borgata, era convinta che Giorgio, suo figlio, si fosse perso mentre giocava. Quando Giorgio tornò dalla Germania un anno dopo trovò sua madre impazzita. “Morì in un manicomio”, racconta Prosperi.

In gran parte gli uomini del Quadraro furono arrestati e deportati: solo la metà tornarono vivi dai lavori forzati in Germania a guerra finita. Molti morirono una volta tornati a Roma, perché avevano lavorato nelle industrie chimiche tedesche e avevano inalato fumi tossici, vivendo in condizioni intollerabili. I partigiani comunisti di Bandiera rossa avevano il loro quartier generale dentro al sanatorio Ramazzini, non lontano da casa di Ada e Vanda, si fingevano malati di tubercolosi, nascondevano le armi nell’ospedale, ma dentro alla struttura sanitaria i militari dell’esercito nazista quella mattina non entrarono per paura di prendere la tubercolosi. “Mio padre è tornato dalla Germania qualche giorno prima della mia comunione, è stato il regalo più bello”, racconta Prosperi. “Aveva perso quasi tutti i capelli e i pochi che gli erano rimasti erano tutti bianchi”, dice la donna. Un anno prima aveva una folta chioma nera, ricorda.

“Non ha mai voluto raccontare a noi figli cosa era successo in Germania, erano storie di guerra, non voleva che le ascoltassimo”. Molti non raccontarono quello che era successo e la memoria della resistenza del quartiere – che già nel febbraio del 1944 si era dichiarato “borgata degli uomini liberi” – non entrò nel racconto ufficiale della resistenza romana fino alla metà degli anni ottanta. Poi una serie di avvenimenti riportò a galla i ricordi rimossi, il presidente del municipio dell’epoca, Sandro Medici, investì sul recupero della storia di questo quartiere.

Il primo a condurre una ricerca sulla base dei racconti dei sopravvissuti è stato un militante comunista, Walter De Cesaris, che al termine del suo lavoro scrisse il libro La borgata ribelle, poi vennero gli studi del circolo Gianni Bosio e quelli di Alessandro Portelli, lo spettacolo teatrale Il nido di vespe di Simona Orlando e Daniele Miglio, e quello di Ascanio Celestini, Scemo di guerra. Il padre di Celestini era originario del Quadraro e così, anche attraverso la storia della sua famiglia, l’attore e autore teatrale ha fatto conoscere i fatti dell’aprile del 1944 al grande pubblico. Nel 2004, a sessant’anni dal rastrellamento, il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì la medaglia d’oro al valor militare alla borgata, che fino a quel momento non era mai entrata nei libri di storia.

L’Operazione balena “You are now entering free Quadraro”, c’è scritto all’angolo di un murale che rappresenta delle vespe giganti in una delle prime strade del quartiere venendo dalla Tuscolana. Poco più in là, sul Monte del Grano (nome popolare del mausoleo cosiddetto di Alessandro Severo), uno dei punti più alti della zona, è stato costruito un monumento per ricordare il rastrellamento. Il murale di vespe è stato realizzato dallo street artist Lucamaleonte nell’ambito del progetto MuRo e suggerisce una delle definizioni storiche del quartiere chiamato “il nido di vespe”.

Fu il comandante della Gestapo a Roma, il mandante dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, Herbert Kappler, a chiamarlo così perché aveva capito che era una delle zone più attive dal punto di vista militare sul fronte della resistenza. Kappler ordinò il rastrellamento del quartiere, che sorge lungo la via Tuscolana, vicino alla ferrovia, a uno dei comandi militari tedeschi, perché temeva che l’esercito nazista avrebbe potuto trovarsi stretto tra due fronti: da una parte quello meridionale con l’avanzata delle truppe alleate e dall’altra un fronte interno con l’insurrezione di un quartiere che aveva dimostrato una grande capacità sovversiva nei mesi dell’occupazione. L’azione fu soprannominata Operazione balena.

                                                                    Quadraro, Roma, 2019. Il memoriale dedicato alle vittime del rastrellamento. (Sara Cervelli)

Ufficialmente il comunicato emesso dal comando tedesco all’indomani del rastrellamento spiegava che l’azione era una rappresaglia per punire l’ultima azione del famoso “gobbo del Quarticciolo”, il soprannome di Giuseppe Albano, un leggendario personaggio della resistenza romana, un bandito, autore di numerose azioni di guerriglia e sabotaggio capaci di mettere in difficoltà le milizie occupanti. Il 10 aprile, infatti, Albano – insieme a due ragazzi del Quadraro, Giovanni Ricci, detto il cinese e Franco Basilotta – aveva ucciso tre soldati nazisti all’osteria di Giggetto sulla via Tuscolana, il giorno di Pasquetta. Lo scontro a fuoco nell’osteria era avvenuto quasi per caso, ma tutti temevano, pochi giorni dopo l’eccidio delle Fosse Ardeatine, che i tedeschi avrebbero reagito con nuove azioni di rappresaglia.

“Il motivo del rastrellamento non è stato tanto l’uccisione dei tre tedeschi, a Roma infatti morivano soldati tedeschi tutti i giorni. Il vero motivo è che i nazisti volevano colpire il Quadraro, che era un importante snodo per la resistenza romana in base a diverse indagini condotte dalla polizia segreta”, spiega lo storico Riccardo Sansone. Secondo la suddivisione fatta dal Comitato di liberazione nazionale (Cnl), il Quadraro faceva parte dell’ottava zona (insieme al Pigneto, al Quarticciolo, a Centocelle, alla Certosa). Ogni zona aveva un comandante militare e un commissario politico e c’era un forte coordinamento tra le diverse formazioni politiche attive. Al Quadraro erano presenti il Partito comunista clandestino, il Partito socialista dell’unità proletaria (che aveva la sua base proprio nella casa dell’imprenditore Gioacchino Basilotta), il Partito d’azione e il Fronte militare clandestino.L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LA PUBBLICITÀ

“È vero che al Quadraro c’erano tanti antifascisti storici, persone che erano state anche mandate al confino, che avevano subìto purghe e persecuzioni durante il fascismo. Ma non si può comprendere fino in fondo la forza della lotta partigiana in questo quartiere se non si considera la sua dimensione locale: il fatto che il quartiere era una sorta di enclave, separato dagli altri rioni da prati e spazi verdi. Questo aveva creato dei rapporti molto stretti tra le persone, anche se non appartenevano allo stesso partito. I preti che partecipavano alla resistenza, per esempio, collaborarono assiduamente con i comunisti di Bandiera rossa che erano nascosti dentro all’ospedale Ramazzini”, spiega Sansone. Inoltre anche molte frange della polizia e dei carabinieri avevano cominciato a collaborare con i partigiani.

Dopo l’8 settembre 1943 c’era stata una saldatura tra diversi strati della società, contro un nemico comune: l’occupante nazista. “Un episodio chiave tra Casilina e Tuscolana fu quando i tedeschi spararono contro i granatieri di Sardegna, dopo l’armistizio, davanti agli occhi dei cittadini. Molti al Quadraro divennero partigiani in seguito a quell’episodio”, racconta Sansone. “I carabinieri del Quadraro per esempio evitarono la deportazione, entrarono in clandestinità e si unirono alla lotta partigiana. Non c’erano solo gli antifascisti storici, al Quadraro abbiamo assistito a una collaborazione molto efficace tra diversi attori”.

Poco più di un mese dopo l’Operazione balena Roma fu liberata dagli alleati: tra i quasi mille deportati c’erano molti partigiani, ma le bande della resistenza del Quadraro non furono distrutte e continuarono a operare fino alla liberazione, il 5 giugno 1944. Tra loro c’erano soprattutto operai edili, artigiani, braccianti, persone comuni: anche per questo la storia della resistenza in periferia è stata ancora poco raccontata.

 

Fosse Ardeatine, don Pappagallo e l’ultima benedizione

Ritratto dell’unico prete trucidato nelle cave di pozzolana sull’Ardeatina. Lo storico Augusto D’Angelo: «Nelle vittime c’è uno spaccato di Roma che voleva preservare degli spazi di umanità»

 

«C’è uno spaccato di Roma, nelle vittime delle Fosse Ardeatine, che ha pagato la violenza nazista nel tentativo di preservare degli spazi di umanità nella Capitale». Ci sono intellettuali e operai, straccivendoli e generali, artigiani e commercianti. Tra di loro un prete, «che come altri, nel momento dell’occupazione, ha deciso di mettersi in gioco per difendere strenuamente la vita». Augusto D’Angelo, docente di Storia contemporanea alla Sapienza, ricorda così il sacrificio di don Pietro Pappagallo, unico sacerdote ucciso nelle cave di pozzolana della via Ardeatina. La sua figura, assieme a quella di don Giuseppe Morosini, ha dato spunto a Roberto Rossellini per il suo film Roma città aperta, nel quale il ruolo del sacerdote è interpretato da Aldo Fabrizi. «Quando arriva a Roma, nel 1925, è già prete da dieci anni. Dopo la Puglia (era originario di Terlizzi, in provincia di Bari) il servizio pastorale lo porta in Calabria, a Catanzaro, e poi nell’Urbe». La sua ordinazione sacerdotale avviene a poche settimane dall’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale.

A Roma, nel 1928 viene nominato viceparroco della basilica di San Giovanni in Laterano, con lo specifico compito di amministrare il battesimo a San Giovanni in Fonte. «Abitava in via Urbana, a pochi passi dalle suore di Namur», quando sei uomini armati lo arrestano per portarlo nel carcere di via Tasso. Don Pietro procurava ai fuggiaschi dei salvacondotti per attraversare le linee a Sud, proteggeva i perseguitati e tanti ebrei che fece nascondere nel convento vicino a casa. «A denunciarlo – racconta D’Angelo – fu Gino Crescentini. Dopo l’8 settembre, da disertore, fu aiutato da alcuni religiosi a nascondersi nel convento dei Santi Cosma e Damiano. Nelle carte del processo si legge che «fu spinto alla delazione dall’avidità del guadagno». Intorno alle 14 del 24 marzo 1944, un maresciallo tedesco entra nella cella numero 13 del carcere di via Tasso gridando cinque nomi. Portano via anche don Pietro. Al termine del suo ultimo viaggio, in attesa della fucilazione, «si alzò un grido – racconterà un superstite -: “Padre benediteci”. Don Pietro, che era uomo robusto e vigoroso, si liberò dai lacci che gli stringevano i polsi, alzò le braccia al cielo e pregò ad alta voce, impartendo a tutti l’assoluzione».

Dietro l’occupazione di Roma «c’era un disegno di disumanizzazione – conclude D’Angelo -. L’unico modo che aveva la Chiesa per denunciarlo è stato attraverso il lavoro di tanti religiosi e sacerdoti che hanno lavorato all’apertura di spazi di accoglienza per chi fuggiva, con l’idea che fosse prioritario salvare il maggior numero di vite, a qualunque costo».

 



Who Betrayed Anne Frank? Former F.B.I. Agent Reopens a Cold Case

AMSTERDAM — Hiding from the Gestapo in a secret annex of her father’s warehouse in Amsterdam during World War II, Anne Frank heard a little knock on the wall. She could not be sure who or what it was, and it frightened her.

She was right to be scared: Just months later, on Aug. 4, 1944, the police discovered the hide-out during a raid and arrested her and seven others living behind a movable bookcase. All but Otto Frank, the diarist’s father, and later the editor of “The Diary of a Young Girl,” perished in Nazi death camps.

Who gave them up has remained a mystery. Now, almost 75 years later, a team of experts led by a retired F.B.I. agent is bringing modern forensic science and criminology to bear in hopes of solving one of history’s most famous cold case files.

“We will put special emphasis on new leads,” said the retired special agent, Vince Pankoke, 59, who is leading the effort. “We need to verify stories as they come in, and we know that is going to lead to further investigation.”

In the search for new leads, he and his team are digitally combing through millions of pages of scanned material from the National Archives in Washington as well as archives in the Netherlands, Germany and Israel.

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Anne Frank in 1941.CreditAnne Frank Fonds, via European Pressphoto Agency

The use of other modern techniques like forensic accounting, crowd sourcing, behavioral science and testimonial reconstruction may also hold promise of a breakthrough. The team, for example, is carrying out a three-dimensional scan of the original house and using computer models to determine how far sounds might have traveled.

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Those techniques may allow them to re-evaluate old evidence — for instance, whether the knock on the wall, described in Anne Frank’s diary, was someone telling those hiding that they were being too loud, or whether it could have been a trap.

Such modern and expensive techniques were not available to the Dutch national police when they unsuccessfully investigated the case in 1948 and again in 1963.

Much is known about Anne Frank’s life during her two years in hiding, thanks both to her famous diary and the accounts of helpers and friends published after the war. But far less is known about the circumstances surrounding the raid on Aug. 4, 1944.

The raid ended her time in the house on the Prinsengracht and precipitated her long and torturous journey to the Bergen-Belsen concentration camp, where she is believed to have died in February 1945.

In a country from which an estimated 108,000 Jews were deported — of whom only about 5,500 returned — the reopening of the case is also part of a larger national conversation.

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A model of the Anne Frank House in New York. CreditAndrew Burton/Getty Images

“She used to be the girl that we protected and now she has become the girl that we betrayed,” said Bart van der Boom, an expert on the Nazi occupation and a lecturer at Leiden University. “It’s a function of how the Dutch perceive themselves during the occupation.”

That perception changed in the 1960s, said Dr. van der Boom, when the Dutch started to question the traditional narrative that all Dutch people were victims of the Nazis. The Dutch Resistance Museum in Amsterdam, for example, now features a narrative thread describing the life of a collaborator, as well as ones about people who stayed neutral, those who resisted and those who were victimized.

At least 28,000 Jews hid from the Germans during the five-year occupation of the Netherlands, Dr. van de Boom said. Of those, roughly a third were caught, the vast majority because of the efforts of a small band of paid collaborators known in Dutch as “Jodenjagers,” or Jew hunters, he said.

“We don’t know what happened exactly on that fateful day, and there is something intriguing about an open end in a narrative,” said Ronald Leopold, the executive director of the Anne Frank House foundation, which runs the museum and conducts research into her life and death.

“Betrayers did not have the classical image we have of perpetrator, those uniformed faces of death,” Mr. Leopold said.

The figure of the betrayer is important in the life of Anne Frank because, unlike the police and soldiers who would be responsible for her death, the betrayer was possibly known by the Frank family, and almost certainly was not someone wearing an official uniform.

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Thijs Bayens, a filmmaker and organizer of a new investigation into the Anne Frank case.CreditCris Toala Olivares/Reuters

The list of possible subjects has been growing as researchers have proposed new names and theories. While Wilhelm van Maaren, a warehouse foreman, was the primary focus in both Dutch police investigations, the new investigation is open to all possibilities.

“When Otto Frank returned, in the summer of 1945, he assumed someone gave them up,” said Gertjan Broek, a senior historian at the Anne Frank House, which receives 1.3 million visitors a year. “It’s always been a firmly held belief.”

But while the idea that the police were tipped off has long been part of the Anne Frank story, not everyone is convinced that betrayal necessarily played a role.

Dr. Broek published a 37-page report in December proposing the theory that the police were at the address on another mission, and found the lodgers only by chance.

Researchers in the Netherlands have welcomed the new investigation, and Dr. Broek is serving as one of its advisers.

“What is new about this one is that it looks at the case with forensic eyes,” Mr. Leopold said. “And we look forward to the results.”

 
The gravestone of Anne Frank and her sister, Margot, at the site of the Bergen-Belsen concentration camp in Germany. CreditAlexander Koerner/Getty Images

The investigative team — which also includes Roger Depue, a retired F.B.I. behavioral scientist, among its 20 members and consultants — hopes to reveal its progress on Aug. 4, 2019, exactly 75 years after the raid.

Thijs Bayens, an organizer of the investigation and a filmmaker who plans to make a documentary about it, said the cost of the work would run into six digits, and the group is collecting donations on its website. Mr. Pankoke is keeping a diary of the investigation on the group’s website.

During his 27-year career, Mr. Pankoke said, he worked on a squad aimed at Colombian drug traffickers in the 1990s and investigated the cellphone communications of the Sept. 11 hijackers. Working in an undercover unit, he played the part of a financier to investigate crimes on Wall Street.

The new team has made progress already, Mr. Pankoke said. Someone claiming to be a neighbor of the now-famous annex left information on the investigators’ tip page that pointed to another nearby resident as having collaborated with Nazis. Mr. Pankoke said his team would follow up.

He said he hoped that reopening the case would reawaken people’s awareness of the Holocaust, memories of which he fears are receding in an era of genocides and other atrocities.

“Part of the story is being lost to the sands of time,” Mr. Pankoke said. “If we accomplish nothing else — and I’m certain we will, I have a great team — we are bringing attention to the issue.”

Correction: November 1, 2017  An earlier version of this article misstated the length of the German occupation of the Netherlands during World War II. It lasted five years, not four.

Gramsci, i “Quaderni del carcere” per la prima volta a Londra

Lunedì 30 Ottobre alle 15:53


Alcuni originali dei “Quaderni del carcere” di Gramsci in mostra a Londra
 
Gli originali dei 33 “Quaderni dal carcere” di Antonio Gramsci in una mostra – sino al 10 novembre – all’Istituto Italiano di Cultura di Londra. Un’importante rassegna che, nell’ottantesimo anniversario dalla morte, ripercorre la vita e il pensiero del celebre politico, filosofo e giornalista italiano. Si tratta della prima volta in assoluto per gli originali dei Quaderni – che Gramsci iniziò a scrivere dall’8 febbraio 1929, durante la sua prigionia – in una esposizione al di fuori dei confini italiani. Un’occasione che non ha precedenti per dare conto, anche attraverso una serie di presentazioni e conferenze, dello stato degli studi e della diffusione di Gramsci sul piano globale. Inaugurazione ufficiale oggi alle 18.30 a Londra, con interventi dei curatori Silvio Pons, Professore di Storia contemporanea all’Università di Roma Tor Vergata e Presidente della Fondazione Gramsci, e Francesco Giasi, Direttore della Fondazione Gramsci. Fra i temi al centro della discussione, l’importanza dell’iniziativa nel rinsaldare il legame tra il pensiero di Gramsci e il mondo culturale britannico, inaugurato dal “dialogo” con Ludwig Wittgenstein per il tramite di Piero Sraffa, professore a Cambridge negli stessi anni del filosofo austriaco, ed “esploso” soprattutto a partire dalla pubblicazione, da parte dell’editore Lawrence and Wishart, della prima scelta antologica dei Quaderni, le Selections from the Prison Notebooks, a cura di Quintin Hoare e Geoffrey Nowell-Smith (1971). Gli originali in esposizione saranno affiancati da dispositivi touch screen contenenti l’edizione digitale dei Quaderni, che permetteranno ai visitatori di sfogliarne virtualmente le pagine. La mostra, dal titolo “I Quaderni del carcere di Antonio Gramsci”, è realizzata in collaborazione tra Fondazione Gramsci Onlus e Istituto Italiano di Cultura di Londra, con il sostegno di Fondazione di Sardegna. (Redazione Online/v.l.)

 

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