In occasione dell’81° anniversario della triste ricorrenza del rastrellamento degli ebrei romani, ripropongo un articolo che scrissi nel 2013 per L’Osservatore Romano. Un modo, questo, per non dimenticare mai un evento che costò la vita a numerose persone innocenti e onorare la memoria di chi, tanti anni fa, ha subito l’oltraggio di essere strappato dai suoi affetti più cari e deportato negli orribili campi di sterminio nazisti dai quali, purtroppo, non ha fatto più ritorno.

Un grazie di vero cuore alle sorelle Laura e Silvia Supino che, attraverso i loro suggestivi e struggenti ricordi, hanno reso possibile la realizzazione di questo articolo.

Sono trascorsi ormai 81 anni da quel triste sabato del 16 ottobre 1943, ma ogniqualvolta ci si ritrova a passeggiare nel cuore dell’antico ghetto, tra i resti del Portico d’Ottavia e del Teatro di Marcello, improvvisamente, si avverte un senso di smarrimento e incominciano a riaffiorare alla mente le scene raccapriccianti di quel dramma che si consumò, per le strade di Roma, sotto lo sguardo imperturbabile dei militari tedeschi agli ordini del capitano delle SS Theodor Dannecker. È come se, tutto ad un tratto, sembra di percepire l’incedere impetuoso dei cingolati tedeschi e le grida di terrore di quei 1.024 ebrei romani sorpresi nel sonno, mentre si accingevano a celebrare il terzo giorno della festa di Sukkot.

Laura Supino

Alle prime luci dell’alba, infatti, nonostante le rassicurazioni fornite da Kappler il 26 settembre ai responsabili della comunità ebraica dopo la consegna dei 50 chilogrammi d’oro richiesti, scattò quella scellerata operazione che non risparmiò nessun quartiere della capitale, passata tristemente alla storia col nome in codice Judenaktion, meticolosamente pianificata fin dal 24 settembre nel quartier generale della Gestapo di Berlino dal capo delle SS Heinrich Himmler su espressa richiesta di Eichmann. L’ordine fu puntualmente eseguito pochi giorni dopo dal comandante della SIPO-SD di Roma Herbert Kappler. Questa operazione, in realtà, fu agevolata grazie alla consegna ai tedeschi dei registri, accuratamente predisposti e aggiornati dall’amministrazione italiana dopo l’introduzione delle leggi razziali e dai ruoli fiscali dei membri della comunità ebraica che le SS avevano sequestrato il 28 settembre nel corso di una perquisizione nei locali del Tempio Maggiore, da cui si poteva facilmente risalire agli indirizzi. Per fortuna non tutti finirono nelle grinfie dei tedeschi, perché  qualcuno, rocambolescamente, riuscì a salvarsi trovando rifugio nei vari istituti religiosi disseminati nell’Urbe, come le sorelle Laura Silvia Supino, all’epoca due bambine di tredici e otto anni che, grazie alla generosità dei loro vicini di casa, Serafino e Amalia Trella– per questo motivo riconosciuti da Yad Vashem nel 2011 “Giusti tra le Nazioni” – restarono nascoste nella loro abitazione in via Po, prima di trasferirsi nel collegio “S. Elisabetta” gestito dalle suore Francescane Missionarie del S. Cuore perché, ormai, quel luogo non garantiva più un’adeguata sicurezza.

«Quando siamo fuggiti da casa – dichiara, sul filo della memoria, Laura Supino – ci siamo recati in un edificio dove abitava un’amica di mia nonna, una socialista, perché eravamo sicure che riusciva a trovarci un nascondiglio. E difatti ci fece nascondere nei cassoni dell’acqua del suo palazzo. Poi, dopo qualche giorno, il nostro portiere, che era una persona di provata fiducia, a cui mio padre aveva detto dove avrebbe potuto trovarci per qualsiasi cosa, è venuto a cercarci per riferirci che la famiglia Trella gli aveva assicurato che avrebbe ospitato noi tre ragazzi».

Poi, ai principi di dicembre, grazie ai buoni uffici di un alto prelato del Vaticano, amico di vecchia data della nonna, riuscirono ad essere ospitate, sotto mentite spoglie, all’interno del Collegio “S. Elisabetta” dove furono presentate dalla della Superiora generale Madre Cecilia Lazzeri come delle profughe provenienti da Napoli. Il fratellino Giulio, invece, fu affidato alle amorevoli cure dei Fratelli del S. Cuore, che lo tennero nascosto nel loro istituto di “Cristo Re”. Appena Laura e Silvia Supino giunsero in collegio, Sr. Agostina e sr. Anastasia subito si preoccuparono di insegnare loro le principali preghiere, in modo tale che potessero partecipare alle funzioni religiose senza destare alcun sospetto ed essere esposte al pericolo di qualche delazione, considerato che tra le allieve di questo istituto c’erano anche le figlie di alcuni gerarchi fascisti e persino la nipote del duce, Raimonda Ciano detta Dindina, secondogenita di Edda e Galeazzo.

Madre Cecilia Lazzeri con “Dindina” Ciano

Nell’Istituto dove eravamo state accolte – sottolinea Laura Supino –, le Suore, giovani e anziane, erano state subito affettuose nei nostri confronti […]. Credo che solo la Madre Superiora sapesse chi eravamo veramente […] anche i nostri genitori più tardi avevano trovato rifugio in un Monastero dall’altra parte della città, […] ogni tanto ci venivano a trovare, ma senza nessun appuntamento sicuro né ad intervalli precisi, sempre per motivi di sicurezza e per evitare di trovarsi in situazioni di pericolo. Dopo la prima retata, i tedeschi continuavano ad arrestare – e deportare – gli ebrei che trovavano per strada o se qualche informatore faceva sapere dove gli ebrei erano nascosti: c’era un “premio” pagato dai tedeschi alla consegna di ogni ebreo.

Il collegio Santa Elisabetta delle suore francescane missionarie del Sacro Cuore

Seguendo l’esempio di tanti altri enti ecclesiastici, anche queste religiose, infatti, non restarono indifferenti alle precise istruzioni impartite dalla S. Sede che, sebbene pubblicamente impose una rigorosa consegna del silenzio, in realtà invitò a spalancare generosamente le porte dei conventi a chiunque fosse braccato dai nazi-fascisti. Le notizie rinvenute nelle cronache del collegio “S. Elisabetta”, pertanto, rappresentano un altro interessante tassello che si aggiunge a quel mosaico della carità testimoniando, se ancora ce ne fosse bisogno, il ruolo di primo piano svolto in quegli anni convulsi dalla Chiesa cattolica attraverso l’opera encomiabile di tanti uomini e donne, laici e religiosi, promossa e sostenuta da Pio XII che, non esitò a mettere a disposizione di coloro che erano perseguitati finanche la residenza pontificia di Castel Gandolfo.

Razzia degli ebrei. Giorni di terrore – scriveva, il 20 ottobre 1943, con un velo di mestizia la cronista del collegio “S. Elisabetta” –. Abbiamo 15 persone rifugiate e nascoste, giorni di grande ansia, di timori, di preoccupazioni. Si parla di saccheggi, di incendi, di guerra civile.

L’avviso firmato dal governatore Stahel

Proprio per questo motivo, fin dal mese di ottobre del 1943, per scongiurare il pericolo delle improvvise perquisizioni nazifasciste all’interno degli ambienti ecclesiastici, la S. Sede fece pervenire a tutti i superiori, un avviso firmato del governatore militare della capitale Rainer Stahel, da affiggere sulle porte d’ingresso di tutti gli istituti religiosi, in cui si dichiarava esplicitamente che l’edificio era sotto le dirette dipendenze della Città del Vaticano e, pertanto, venivano interdette perquisizioni o requisizioni d’ogni genere. 

Dal racconto, davvero struggente, di Laura e Silvia Supino si evince chiaramente l’ammirazione per il rispetto che le religiose mostravano nei loro confronti, cercando in qualsiasi momento di venire incontro alle esigenze di tutti i loro ospiti.

Dopo qualche giorno noi ragazzi eravamo stati accolti con grande amore e coraggio dalla famiglia Trella, ma era troppo pericoloso per loro e per noi far durare troppo a lungo quell’ospitalità.

Attraverso conoscenze che la nostra nonna aveva con alcune personalità cattoliche, finalmente papà era riuscito ad avere la possibilità di farci accettare come interni in due collegi religiosi di Roma: un Istituto di suore per me e mia sorella, – il Santa Elisabetta della Suore Missionarie del S. Cuore – e un altro, di sacerdoti, – il Cristo Re dei Fratelli del Sacro Cuore – per nostro fratello. […]

Nostro padre ha potuto iscriverci regolarmente, anche se in ritardo, – doveva essere la fine di novembre o i primi di dicembre del ’43 -, per l’anno scolastico, con i nostri nomi, anche se con qualche dato anagrafico necessariamente diverso, per evitare eventuali riconoscimenti. Essere finalmente ospitate in un luogo sicuro -speravamo che lo fosse, ed in realtà lo è stato – è stato di grande sollievo per noi e per i nostri genitori. I primi giorni di collegio sono stati un alternarsi di forzata tranquillità,- non dovevamo assolutamente avere l’aria di chi fuggiva da qualcosa, eravamo “ufficialmente” profughe da Napoli, (ma per fortuna a nessuna delle altre ragazze è venuto in mente di chiederci qualcosa su Napoli perché io non l’avevo mai vista) – e di grande tensione, poiché dovevamo “ovviamente” essere cattoliche e comportarci da tali, ma non sapevano nulla della religione, abbiamo dovuto imparare in fretta, quando già eravamo in collegio, le preghiere e come comportarci nella cappella durante la messa, e mi rendevo conto via via di quanti errori facevo (facevamo) sperando che le altre ragazze, da cui cercavo di capire come dovevo muovermi, quali parole dire, non se ne accorgessero. […]

Nell’Istituto dove eravamo state accolte, le Suore, giovani e anziane, erano state subito affettuose nei nostri confronti, direi quasi materne anche se con molto autocontrollo. Credo che solo la Madre Superiora sapesse chi eravamo veramente, ma tutte in ogni caso erano partecipi delle nostre difficoltà ufficiali di “profughe” da una città, che ormai era separata dal fronte di guerra e dove solo per questo non potevamo tornare…

Io e mia sorella dormivamo in due stanze separate, lei con le piccole ed io con le grandi. Non ricordo esattamente quante “interne” eravamo in tutto – conclude Laura Supino –, forse 15 o poco più, molte ragazze interne dell’anno precedente non erano tornate dal Sud, a loro volta – realmente – separate dalla guerra.

Difatti, oltre alle sorelle Supino, le suore accolsero tra le proprie mura anche altre persone che erano in pericolo di vita, come la signora Musatto di origini ebraiche, il maggiore Petruzzelli e i baroni Rodi di Pantelleria. Il 15 dicembre 1943 leggiamo, infatti, nelle cronache:

In questo mese ricoveriamo il maggiore Petruzzelli, ricercato dai tedeschi, che si traveste da giardiniere col falso nome di Bernardino Massaro. Con lui ricoveriamo altri due carabinieri, che si fecero dei nascondigli nella nostra legnaia per sfuggire alla deportazione.

Il pericolo era sempre in agguato, tant’è che in un paio di circostanze le piccole sorelle Supino se la videro davvero brutta.

Il giorno in cui una delle mie compagne di camera […] ha avuto la febbre – ricorda ancora con emozione Laura Supino – ero con lei, forse per farle compagnia, quando è entrato un soldato tedesco, un SS: uno spavento terribile per me, fin che non ho capito che era uno dei suoi fratelli, un ragazzo più grande di lei, poteva avere 18 anni, ed era in divisa delle SS […] era uno di quegli italiani arruolati dai tedeschi e che collaboravano con gli occupanti nella ricerca di antifascisti, di ebrei o in ogni caso di quegli italiani che si opponevano all’occupazione nazista. […] Vederlo nella nostra camera, prima di sapere chi fosse, pensare che avessero scoperto chi eravamo, […] mi ha fatto stare male […] anche dopo aver capito chi era. Grazie al Cielo era solo venuto a trovare la sorella.

La gravità della situazione generava in ognuno un profondo senso d’inquietudine perché bisognava sempre prestare la massima attenzione a non lasciarsi sfuggire qualche particolare per non farsi riconoscere e venire acciuffati dai tedeschi. Difatti un bel giorno di primavera avvenne che una loro compagna di classe

mentre nell’intervallo delle lezioni si stava in giardino, […fu] chiamata al cancello con grandi segni da un ragazzo arrivato in bicicletta […]. Il ragazzo ha parlato con lei brevemente e le ha dato un biglietto, poi è andato via in fretta. Da ragazze stupide, abbiamo pensato che fosse un suo innamorato […] Dopo la liberazione abbiamo saputo che in quel biglietto qualcuno le aveva comunicato che il padre, un ufficiale dell’Esercito Italiano, era stato arrestato dai tedeschi e […] dopo è risultato che era stato ucciso. […]

Nell’estate del ‘44 abbiamo potuto essere di nuovo tutti insieme, noi tre figli con i nostri genitori nella nostra casa. Certamente non tutto era come prima e ce ne dovevamo rendere conto a poco a poco, via via che venivamo a sapere quante persone di conoscenza anche tra i nostri parenti o tra gli amici più vicini, bambini adulti e anziani – anche la mia compagna di banco della Scuola Ebraica – non avevano avuto la possibilità di salvarsi dalla deportazione e non li avremmo più avuti tra di noi.

Molto si è dibattuto – e si continua a discutere, soprattutto dopo l’apertura. da parte della S. Sede, dell’archivio sul pontificato di Pio XII – sull’atteggiamento assunto in questa circostanza da Papa Pacelli che, probabilmente, considerando ciò che era accaduto appena un anno prima in seguito alla vigorosa denuncia dell’episcopato olandese, per non compromettere ulteriormente la situazione ed esasperare gli animi già fin troppo esacerbati dei nazisti, pensò che occorreva lasciarsi guidare dalla prudenza, ritenendo più opportuno attivare una fitta rete di canali diplomatici per cercare di porre fine a quello scempio che si stava consumando proprio sotto le sue finestre. Una presa di posizione ufficiale del pontefice, probabilmente, gli sarebbe valso un encomio solenne sul piano storico, ma ciò avrebbe certamente compromesso ineluttabilmente l’opera svolta in sordina da tanti laici e religiosi per occultare molte famiglie ebree nelle loro case e nei vari istituti religiosi disseminati nell’Urbe. Senza contare, poi, la prevedibile violenta ritorsione di Hitler ai danni di tante persone innocenti che avevano avuto la sventura di cadere nelle mani dei tedeschi, pregiudicando anche il lavoro svolto nel più stretto riserbo dalle varie organizzazioni religiose, come l’Opera San Raffaele diretta dal pallottino p. Anton Weber, che si stava adoperando proprio per agevolare l’espatrio clandestino degli ebrei.

© Giovanni Preziosi, 2024
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